Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi

Colpo ai clan di Agrigento e Trapani, 22 fermi. In manette anche due dirigenti della polizia. Scoperti collegamenti con la rete di Messina Denaro

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi

Agrigento, blitz antimafia con 22 arresti. Bloccato mandante omicidio Livatino, riorganizzava la Stidda. Summit nello studio di un’avvocata di Canicattì.

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi. Colpo ai capimafia e boss della Stidda.

Gli stessi sono coinvolti nell’inchiesta della Dda di Palermo che oggi registra 22 fermi compreso un’avvocata.

L’indagine centra le famiglie mafiose agrigentine e trapanesi.

Coordinano il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, l’aggiunto Paolo Guido e i pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo.

L’inchiesta raggiunge anche un ispettore, un assistente capo della polizia.

Questi ultimi sono accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio.

Gli indagati rispondono a vario titolo di mafia, estorsione e favoreggiamento aggravato.

I boss si riunivano nello studio di un’avvocata.

I capimafia di diverse province siciliane per due anni si sono riuniti nello studio di un’avvocata di Canicattì finita in cella oggi nel blitz dei carabinieri.

La legale è difensore di alcuni mafiosi e compagna di un imprenditore già condannato per associazione mafiosa.

Il suo studio era stato scelto come base logistica dei clan perché la legge limita le attività investigative negli uffici degli avvocati.

Gli inquirenti hanno accertato che la donna, Angela Porcello, aveva assunto un ruolo di vertice in Cosa nostra organizzando i summit e,

svolgeva il ruolo di consigliera, suggeritrice e ispiratrice di molte attività dei clan.

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi

I mafiosi erano Rassicurati dall’avvocato sulla impossibilità di effettuare intercettazioni nel suo studio.

Quindi i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, un ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano di Villabate (Pa) e,

il nuovo capo della Stidda si ritrovavano secondo le indagini nello studio, per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra.

Registrate centinaia di ore di intercettazioni disposte dopo che, nel corso dell’inchiesta, i carabinieri hanno compreso la vera natura degli incontri.

Le intercettazioni hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne alle cosche.

Le registrazioni hanno permesso inoltre di cogliere in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni delle loro strutture.

Si tratta di notizie preziose che hanno fatto identificare personaggi ignoti agli inquirenti e vecchi boss ancora operativi.

I boss si riorganizzano.

La Stidda nel mandamento mafioso di Canicattì torna a riorganizzarsi e ricompattarsi con figure di due ergastolani riusciti a ottenere la semilibertà.

Uno dei capimafia nello specifico è indicato come il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino.

Quest’ultimo avrebbe sfruttato i premi che in alcuni casi spettano anche ai condannati al carcere a vita.

Attraverso i premi è tornato ad operare sul territorio e ridare vita alla Stidda che sembrava ormai sconfitta.

Quindi il boss Antonio Gallea è stato ammesso alla semilibertà dal tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015 perché ha mostrato la volontà di collaborare con la giustizia.

Gallea ha scontato 25 anni per l’assassinio del giovane magistrato, trucidato il 21 settembre del 1990 e da poco proclamato Beato da Papa Francesco,

Un’altro capomafia attorno al quale la Stidda si sarebbe andata ricompattando ha scontato 26 anni.

Quest’ultimo ed è stato ammesso al beneficio della semilibertà il 6 settembre del 2017 e autorizzato dal tribunale di Sassari a lavorare fuori dal carcere.

Anche lui avrebbe mostrato l’intenzione di aiutare gli investigatori. Una “collaborazione” che la giurisprudenza definisce “impossibile”.

Impossibile, in quanto entrambi hanno parlato di fatti già noti alla magistratura non apportando, dunque, contributi nuovi alle indagini.

Fattore che ha consentito a tutti e due i capi mafia di beneficiare di premialità previste dal sistema giudiziario.

La Stidda e la concorrenza a cosa nostra.

Dall’inchiesta è emerso che gli stiddari sono tornati a far concorrenza a Cosa Nostra, con la quale alla fine degli anni ’80 si erano fronteggiati in una guerra con decine di morti.

In questo caso la “competizione” tra le due organizzazioni criminali non è protagonista di spargimenti di sangue, anzi le due mafie si sarebbero spartite gli affari.

Tra gli affari condivisi: il settore mediazioni nel mercato ortofrutticolo, uno dei pochi produttivi della provincia di Agrigento.

Dall’indagine è emerso che gli stiddari avrebbero usato la loro forza intimidatoria per commettere estorsioni e danneggiamenti.

Smascherato anche un piano di omicidio di un commerciante e di un imprenditore, evitato grazie all’intervento degli investigatori.

Inoltre i militari dell’Arma hanno scoperto che La Stidda poteva contare su un vero e proprio arsenale di armi.

La mafia agrigentina controllava e sfruttava il settore del commercio di uva e altri prodotti agricoli nella provincia.

Questo traffico permetteva l’accaparramento di ingenti risorse economiche che alimentavano le casse dei clan e limitavano il ricorso ad attività illecite rischiose come il traffico di droga.

Nello stesso tempo le cosche presidiavano la principale attività economica del territorio in una provincia saldamente legata al mercato agroalimentare.

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi

Le falle del 41bis.

Il boss ergastolano agrigentino Giuseppe Falsone e diversi capimafia, sarebbero riusciti a parlare tra loro, a scambiarsi messaggi.

Gli stessi, nonostante fossero detenuti al carcere duro e riuscivano a comunicare tra loro inoltre facevano arrivare ordini all’esterno.

In alcuni casi, secondo le indagini, grazie alla complicità di alcuni agenti di polizia penitenziaria,

addetti ai controlli dei carcerati al 41 bis, a volte riuscivano, per falle del sistema, a eludere la sorveglianza e a passare informazioni a gesti senza essere intercettati.

Avvocato complice del sistema.

In particolare, dall’indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento,

durante un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e,

un’avvocata, fermata oggi con l’accusa di mafia, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e,

di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con Falsone.

Il boss, inoltre, sarebbe riuscito a inviare messaggi all’esterno, perché in alcuni istituti di pena non è controllata la corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i propri difensori.

Sfruttando questo limite nella vigilanza Falsone, attraverso il suo avvocato, sarebbe riuscito a fare uscire dal carcere dei messaggi.

Comunicazioni che in prima battuta, essendo destinati a terzi, erano stati censurati dal magistrato di sorveglianza.

L’indagine ha accertato inoltre che i boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara,

sfruttando inefficienze nei controlli dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi.

Durante l’inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all’avvocata indagata.

i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia.

L’agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l’indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.

Agrigento, blitz antimafia con 22 fermi.

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